Conferenza Mondiale sul Clima: resoconto

Conferenza Mondiale sul Clima: resoconto

L’appuntamento ha avuto il suo epilogo a Marrakech lo scorso 18 novembre. Di seguito il diario, tenuto dall’inviato Mauro Albrizio.

“I risultati concreti sono modesti ma da Parigi non si torna indietro. Tutti i governi si sono impegnati a rendere pienamente operativo l’Accordo entro il 2018”

19.11.2016
Di Mauro Albrizio, responsabile Clima e politiche europee di Legambiente

Da Marrakech arriva un segnale chiaro e forte. Da Parigi non si torna indietro

Si è chiusa qui nella notte di Marrakech la COP22 superando lo scoglio finanziario, grazie alla disponibilità manifestata dai paesi poveri.
Da Marrakech arriva un segnale chiaro e forte. Da Parigi non si torna indietro, la sua direzione di marcia è irreversibile. Tutti i governi si sono impegnati a rendere pienamente operativo l’Accordo di Parigi entro il 2018.
Va tuttavia sottolineato che i risultati concreti sono modesti, in particolare per quanto riguarda il sostegno finanziario dei paesi industrializzati all’azione climatica dei paesi poveri. Il risultato di maggior rilievo è l’adozione del programma di lavoro, con un calendario di verifiche intermedie serrato, per definire la governance dell’Accordo entro la COP24 del 2018, quando è prevista la prima revisione degli impegni assunti a Parigi lo scorso dicembre.
A Marrakech, i governi hanno ribadito – sotto la forte spinta soprattutto dei paesi in via di sviluppo – l’urgenza dell’azione climatica immediata, concordando la necessità di aumentare gli impegni di riduzione delle emissioni prima del 2020, in coerenza con gli ambiziosi obiettivi di Parigi di contenere l’aumento della temperatura globale ben al disotto dei 2°C e facendo ogni sforzo per limarla a 1.5°C.
Tuttavia non vi sono stati impegni concreti in questa direzione. A partire dall’Europa, che a Marrakech ha rivendicato più volte la sua leadership nell’azione climatica globale, senza che a queste dichiarazioni siano poi seguiti impegni concreti. L’Europa può impegnarsi ad aumentare la riduzione delle sue emissioni passando dal 20 al 30% entro il 2020, senza grandi sforzi. Un impegno a portata di mano, visto che ha già superato il 20% con diversi anni di anticipo e ha un trend del 30% di riduzione delle sue emissioni al 2020. Sarebbe sufficiente cancellare il surplus di quote di emissioni assegnate alle imprese e ai governi nazionali, in modo da non consentirne l’utilizzazione nella fase post-2020 e rendere così strutturale la sua riduzione del 30%.
A Marrakech è stato anche concordato che alla COP24 del dicembre 2018 si potranno rivedere i primi impegni di riduzione delle emissioni, incrementandoli in coerenza con gli obiettivi di Parigi. Questo deve essere il momento in cui l’Europa mette in campo la sua leadership con impegni ambiziosi. L’Europa deve arrivare a questo importante appuntamento politico con impegni di riduzione al 2030 ben più ambiziosi dell’attuale 40% e con una strategia di decarbonizzazione della sua economia in grado di raggiungere zero emissioni entro il 2050.
A Marrakech i paesi industrializzati – sebbene abbiano confermato l’impegno a garantire entro il 2020 almeno 100 miliardi di dollari l’anno per finanziare l’azione climatica dei paesi più poveri – hanno purtroppo mostrato scarsa volontà politica nel sostenere l’adattamento delle comunità vulnerabili ai mutamenti climatici in corso. Il gap tra quanto necessario e quanto destinato all’adattamento rimane ancora elevato. È indispensabile che anche in questo caso, l’Europa dimostri nei fatti la sua leadership contribuendo ad assicurare che almeno la metà degli aiuti pubblici ai paesi più poveri sia destinato all’adattamento.
Serve un segnale forte dell’Europa. Non può più nascondersi dietro Stati Uniti e Cina. Deve dimostrare con i fatti la sua leadership nell’azione climatica globale, rivendicata ancora una volta a Marrakech. Un impegno indispensabile non solo per dare gambe all’Accordo di Parigi. Ma soprattutto per lo sviluppo di un’economia europea fossil-free. La sola in grado di farci vincere la triplice sfida climatica, economica e sociale, creando nuove opportunità per l’occupazione e la competitività delle imprese europee. Una sfida che l’Europa e l’Italia non possono fallire.

18.11.2016
Di Mauro Albrizio, responsabile Clima e politiche europee di Legambiente

Negoziati incagliati sugli aiuti finanziari ai paesi più poveri e sul programma di lavoro dei prossimi due anni

Qui a Marrakech siamo oggi al rush finale dei negoziati. Un primo, non scontato, risultato è stato raggiunto. L’impatto – potenzialmente disastroso per il futuro l’Accordo di Parigi appena ratificato – delle elezioni presidenziali americane è stato neutralizzato. Nella Marrakech Action Proclamation (MAP), ossia la dichiarazione politica di tutti i governi che partecipano alla COP22, si afferma senza ambiguità che la direzione di marcia nella lotta ai cambiamenti climatici avviata a Parigi è irreversibile.
Ma non basta a sbloccare i negoziati, incagliati ancora sugli aiuti finanziari ai paesi più poveri per sostenere la loro azione climatica e sul programma di lavoro dei prossimi due anni, che deve portare alla COP24 dove si deve avviare la revisione degli impegni inadeguati assunti lo scorso dicembre a Parigi.
Questioni strettamente intrecciate. Senza un accordo sugli aiuti – in particolare per l’adattamento ai cambiamenti climatici in corso che stanno colpendo duramente soprattutto molti paesi poveri – non sarà possibile concordare nel 2018 una revisione degli attuali impegni di riduzione delle emissioni da parte di tutti i paesi in coerenza con l’obiettivo ambizioso di 1.5°C dell’Accordo di Parigi.
Non a caso, proprio oggi qui a Marrakech, il Climate Vulnerable Forum (CVF), che raccoglie tutti i paesi poveri più esposti ai cambiamenti climatici in corso, si è formalmente impegnato – a condizione di un adeguato sostegno finanziario – a rivedere entro il 2020 gli attuali impegni di riduzione delle emissioni attraverso una strategia di lungo termine con l’obiettivo di raggiungere il 100% di rinnovabili tra il 2030 e il 2050.
Un impegno forte ed ambizioso, che richiede una risposta altrettanto forte dai paesi industrializzati e emergenti. In particolare per quanto riguarda l’istituzione di un Fondo per l’Adattamento all’interno dell’Accordo di Parigi e di un impegno di risorse adeguate per l’adattamento, in modo da giungere ad almeno 40 miliardi di dollari l’anno entro il 2020. Non è accettabile, infatti, che attualmente i paesi del G7 più l’Australia, come sottolineano in queste ore i negoziatori dei paesi poveri, destinino appena 3.4 miliardi di dollari l’anno per l’adattamento contro i 67 miliardi annui destinati a sussidiare le fonti fossili.
Serve una rapida svolta. A partire dalle prossime ore qui a Marrakech.

16.11.2016
Di Mauro Albrizio, responsabile Clima e politiche europee di Legambiente

Europa in contradizione, impegno solo di facciata

L’Europa qui a Marrakech ha ribadito ieri, di essere impegnata con forza a costruire insieme alla Cina una “Coalizione di Ambiziosi” in grado dare gambe all’Accordo di Parigi anche senza gli Stati Uniti.
Impegno che rischia di essere considerato solo di facciata da parte di molti potenziali partner per la forte contradizione tra gli impegni assunti e l’azione concreta, in particolare per la sua politica energetica. Da Bruxelles, nelle ultime ore, è infatti rimbalzata qui a Marrakech la notizia che la Commissione nella sua ultima bozza della proposta di revisione della direttiva sulle rinnovabili introduce misure che rischiano di arrestare lo sviluppo delle rinnovabili in Europa compromettendo così i suoi impegni assunti nell’ambito dell’Accordo di Parigi.
Il prossimo 30 novembre, solo pochi giorni dopo Marrakech, la Commissione adotterà il cosiddetto “Pacchetto di Inverno”, che include otto proposte legislative con le quali si intende riformare la politica energetica europea. Tra queste proposte vi sono, in particolare, la revisione delle direttive sulle rinnovabili e l’efficienza energetica, insieme alle nuove regole che dovranno governare il mercato europeo dell’elettricità. Misure strategiche per consentire all’Europa di accelerare la transizione verso un sistema energetico libero da fossili entro il 2050.
Purtroppo le proposte della Commissione non vanno in questa direzione, in particolare per quanto riguarda la proposta di revisione della direttiva sulle rinnovabili. I target nazionali legalmente vincolanti non verranno più rinnovati dopo il 2020, il target comunitario al 2030 è fissato ad appena il 27%, fortemente inadeguato, se si tiene conto che il suo trend attuale è del 24%. Ma soprattutto viene eliminata la priorità di dispacciamento delle rinnovabili, architrave dell’attuale politica europea che consente la priorità di accesso alla rete rispetto all’elettricità prodotta da fonte fossili, consentendone di fatto un loro rilancio. In particolare per il carbone, visto che nel pacchetto non sono esclusi sussidi (Capacity Mechanisms) sotto forma di aiuti di stato per garantire la sicurezza energetica.
Proposte in forte e aperta contraddizione con la posizione assunta qui Marrakech ieri pomeriggio nel corso del panel “100% Rinnovabili per raggiungere l’obiettivo di 1.5°C”, dove la Commissione ha confermato il suo impegno per il 100% di rinnovabili al 2050.
Serve un immediato cambio di rotta dell’Europa. Non solo per essere un credibile leader a livello internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici. Ma soprattutto per rilanciare l’economia europea attraverso il volano delle rinnovabili.
Secondo diverse analisi il settore può crescere sino a garantire il 45% dei fabbisogni elettrici entro il 2030, con un contributo importante per l’economia europea. Si stima che grazie al raggiungimento dell’attuale obiettivo del 20% si possa raggiungere un incremento netto del PIL europeo dello 0.25% al 2020 e dello 0.45% passando al 45% entro il 2030. Con un impatto occupazionale rilevante. Dagli attuali 1.17 milioni di occupati si può passare a 2.7 milioni nel 2020 e 4.4 milioni nel 2030.
Serve pertanto dare maggiori certezze agli investitori fissando obiettivi più ambiziosi. Solo così sarà possibile essere competitivi sul mercato globale ed affrontare ad armi pari la forte concorrenza asiatica, come testimoniano gli ultimi dati resi noti da Bloomberg.
Secondo l’ultimo rapporto di Bloomberg New Energy Finance (BNEF), nonostante il crollo del prezzo del petrolio e del gas, nel 2015 gli investimenti nelle rinnovabili hanno raggiunto il nuovo record di 329 miliardi di dollari. Grazie alla crescente competitività dei costi del solare e dell’eolico gli investimenti sono cresciuti del 4% rispetto al 2014 con un aumento del 3% rispetto al precedente record del 2011. Questa crescita degli investimenti ha consentito un aumento del 30% della potenza installata di solare ed eolico (121GW), pari a circa il 50% della nuova capacità elettrica installata a livello globale.
In preoccupante controtendenza l’Europa, che ha registrato una riduzione degli investimenti del 18% rispetto al 2014 ritornando al livello del 2006 con 58 miliardi di dollari. Riduzione dovuta non solo al perdurare della difficile situazione economica, ma soprattutto al progressivo smantellamento delle politiche a sostegno delle rinnovabili.
Quasi la metà degli investimenti (110 miliardi) sono registrati in Cina, che si conferma leader mondiale con un aumento del 17% rispetto all’anno precedente. Continua la crescita (+8% rispetto al 2014) degli Stati Uniti, che hanno ormai raggiunto l’Europa con 56 miliardi di dollari investiti nel 2015. L’Europa deve guardarsi anche dalla concorrenza di nuovi mercati, come l’Africa e il Medio Oriente, dove gli investimenti sono aumentati del 54% rispetto al 2014 raggiungendo 13 miliardi di dollari.
Investimenti che sono destinati a crescere. Per dare concreta attuazione all’Accordo di Parigi sul clima e contribuire a stare ben al di sotto dei 2°C, BNEF prevede che nei prossimi 25 anni gli investimenti nelle rinnovabili dovranno essere in media di 485 miliardi di dollari l’anno. Una torta di oltre 12.000 miliardi di dollari su cui la concorrenza per l’Europa sarà sempre più forte.
Il raffreddamento dell’interesse degli investitori rispetto al mercato europeo ha avuto anche un impatto occupazionale da non trascurare. L’Europa – secondo gli ultimi dati IRENA, l’agenzia internazionale per le rinnovabili – ha registrato una riduzione rispetto al 2014 di 50 mila posti di lavoro attestandosi a 1.17 milioni di occupati nel 2015. Mentre in Cina si sono raggiunti ben 3.5 milioni di posti di lavoro nel 2015 su un totale di 8.1 milioni di occupati a livello globale nel settore delle rinnovabili.
La Germania rimane il solo baluardo delle rinnovabili in Europa, piazzandosi al sesto posto a livello mondiale e occupando 355.000 addetti, che corrispondono ai posti di lavoro combinati di Francia, Italia e Regno Unito. Il settore delle rinnovabili in Italia si è ridotto ad appena 92.000 addetti – facendosi quasi doppiare dalla Francia che mantiene 170.000 occupati – grazie ad una forte riduzione (-86%) negli ultimi tre anni degli investimenti che nel 2015 sono stati di appena 2 miliardi di dollari rispetto ai 15 miliardi del 2012.

14.11.2016
Di Mauro Albrizio, responsabile Clima e politiche europee di Legambiente

Compattezza di tutti i paesi che hanno sottoscritto l’Accordo di Parigi: avanti anche senza gli Stati Uniti di Trump.

La Conferenza sul clima qui a Marrakech entra oggi nella sua fase cruciale. Dopo la prima settimana di negoziati a livello tecnico, in particolare sulla governance dell’Accordo di Parigi, con l’arrivo di ministri, capi di stato e di governo si passa ora al confronto politico sulla sua attuazione concreta.
Non ci si può limitare a concordare un programma di lavoro per definire le nuove regole che governeranno l’Accordo. Come proposto dalla presidenza marocchina, l’attenzione della COP22 va spostata sull’azione, creando le giuste condizioni per aumentare – sia nell’immediato che nel lungo termine – l’ambizione dei primi impegni sottoscritti a Parigi.
L’elezione di Donald Trump e la possibilità di un disimpegno degli Stati Uniti, dopo un primo momento di comprensibile incertezza, ha determinato una forte risposta politica da parte di molti governi. A partire dalla Cina, seguita dall’Europa e dalla “Coalizione degli Ambiziosi” insieme al folto gruppo dei paesi meno sviluppati. Senza dimenticare il rinnovato sostegno all’Accordo di Parigi di paesi tradizionalmente poco avanzati nelle politiche climatiche come Australia, Giappone e la stessa Arabia Saudita.
Il primo importante banco di prova della compattezza politica di tutti i paesi che hanno sottoscritto l’Accordo di Parigi nell’andare avanti con determinazione, anche senza gli Stati Uniti di Trump, sarà la conferma degli impegni finanziari a sostegno dei paesi più poveri nella loro azione di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici in corso.
Se non è ancora confermata la decisone della nuova Amministrazione Trump di abbandonare l’Accordo di Parigi. Vi sono, invece, pochi dubbi sul taglio degli impegni finanziari assunti da Obama a sostegno dell’azione climatica nei paesi in via di sviluppo.
A Marrakech sarà pertanto cruciale rendere finalmente operativo il piano di aiuti ai paesi più poveri di 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020, in modo che le comunità più vulnerabili del pianeta possano mettere da subito in campo misure ambiziose di mitigazione e adattamento ai mutamenti climatici in corso.
Segnali positivi sono venuti lo scorso 17 ottobre dall’incontro dei paesi donatori dove è stata adottata la nuova Roadmap al 2020. Con gli ultimi impegni è stata raggiunta la cifra di 93 miliardi di dollari che – secondo proiezioni OCSE – possono mobilitare aiuti sino a 133 miliardi, se i fondi pubblici stanziati riescono ad attivare ulteriori finanziamenti privati.
Purtroppo dei fondi pubblici stanziati (67 miliardi di dollari, di cui 17 europei) solo il 20% è destinato all’adattamento. Risorse ancora inadeguate – si stima che i paesi in via di sviluppo dovranno sopportare costi per l’adattamento tra 140 e 300 miliardi di dollari l’anno entro il 2030 –  che vanno almeno quadruplicate secondo quanto proposto dall’Unione Africana.
Richiesta che va accolta per consolidare il clima di fiducia di Parigi tra paesi sviluppati, emergenti e poveri indispensabile per procedere con determinazione nell’attuazione dell’Accordo, anche senza gli Stati Uniti di Trump.

07.11.2016
Di Mauro Albrizio, responsabile Clima e politiche europee di Legambiente

La necessità di agire è urgente. Non è più il tempo del rinvio. 

Si apre oggi a Marrakech la Conferenza sul Clima (COP22), che continuerà sino al 18 novembre. Appena tre giorni dopo l’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi. È una svolta storica nella lotta ai cambiamenti climatici, dovuta soprattutto all’accelerazione impressa da Cina e Stati Uniti con l’annuncio congiunto della ratifica dell’Accordo al G20 dello scorso settembre. L’Europa è stata costretta ad accodarsi all’ultimo momento utile per consentire l’entrata in vigore dell’Accordo.
Per la prima volta le due economie principali responsabili – insieme rappresentano il 38% delle emissioni carboniche totali – dell’attuale crisi climatica prendono la leadership dell’azione climatica globale impegnandosi ad agire subito senza attendere il 2020, come concordato lo scorso dicembre a Parigi.
Le giuste celebrazioni dell’entrata in vigore dell’Accordo non devono farci dimenticare, però, che viviamo in un mondo dove ormai ogni mese le temperature globali superano un nuovo record. In ogni angolo del pianeta le popolazioni toccano sempre più con mano gli impatti dei cambiamenti climatici in corso.
La necessità di agire continua ad essere urgente. Non è più il tempo del rinvio. Per mantenere l’innalzamento della temperatura – come prevede l’Accordo di Parigi – ben al di sotto dei 2°C, facendo il possibile per limitarlo a 1.5°C, serve subito moltiplicare gli sforzi globali di riduzione delle emissioni senza più attendere il 2020. In ogni settore, in ogni paese.
Con gli impegni assunti a Parigi stiamo comunque andando pericolosamente verso un innalzamento della temperatura di 2.9-3.4°C, come evidenzia il recente rapporto “Emission Gap” dell’UNEP.
La COP22 deve accelerare il cambio di rotta avviato a Parigi e proseguito lo scorso ottobre a Kigali, dove è stato fatto un importante passo in avanti con approvazione dell’emendamento al Protocollo di Montreal che consente una forte riduzione degli Idrofluorocarburi (HFC), potentissimi gas-serra.
La progressiva riduzione degli HFC consentirà entro il 2050 una diminuzione di ben 70Gt di CO2eq, in grado di limitare di 0.5°C l’innalzamento della temperatura globale entro la fine del secolo. Tuttavia la riduzione degli HFC diverrà significativa solo dopo il 2025, per cui rimane cruciale aumentare al più presto gli impegni assunti a Parigi.
Secondo il rapporto dell’UNEP serve, infatti, ridurre le emissioni al 2030 di almeno un 25% in più (ossia di 12/14Gt di CO2eq) rispetto ai primi impegni assunti a Parigi per limitare l’innalzamento della temperatura al di sotto dei 2°C senza pregiudicare l’obiettivo di 1.5°C.
A Marrakech non ci si può pertanto limitare a concordare un programma di lavoro per definire le nuove regole che governeranno l’Accordo. Come proposto dalla presidenza marocchina, l’attenzione della COP22 va spostata sull’azione, creando le giuste condizioni per aumentare – sia nell’immediato che nel lungo termine – l’ambizione dei primi impegni sottoscritti a Parigi. Serve un segnale forte. A partire dall’Europa, che deve riconquistarsi con i fatti la storica leadership nell’azione climatica ormai in declino.

Per saperne di più: Il tempo dell’azione 

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